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Inflazione e tassi di interesse: un rialzo significativo sarebbe sostenibile?

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09 Dic 2021

Oscar Soppelsa, Portfolio Manager Team Equity


In questo momento l’attenzione dei mercati è incentrata sulla dinamica e la durata del processo seguito dall’inflazione: infatti le Banche Centrali sostengono che il rialzo dei prezzi è conseguenza transitoria delle riaperture post pandemia, ma non quantificano la durata di questo “transitorio”. Sappiamo che la politica monetaria sul livello dei tassi di interesse e sull’acquisto di titoli di debito è funzione del livello di inflazione in base ai noti target medi comunicati dalle Banche Centrali, il che ci porta ad elaborare qualche scenario. Non sarebbe inopportuno nemmeno parlare di “shock energetico” considerato quali beni stanno crescendo maggiormente di prezzo.

Federal Reserve

La Federal Reserve (Fed) ha comprato tempo. Secondo programma, entro fine anno partirà il tapering, ovvero la progressiva riduzione di acquisti di titoli di Stato e obbligazioni ipotecarie, ma si esclude il rialzo a breve dei tassi ufficiali. A meno di clamorose marce indietro, possiamo aspettarci la riduzione del tasso di crescita del bilancio Fed (quindi una serie storica che riduce il proprio ritmo di crescita) e si può ritenere che la Fed terrà sotto osservazione un eventuale legame statisticamente significativo con la variazione del CPI (Consumer Price Index) e dell’inflazione forward 5Y5Y.

Se questa dinamica non dovesse rivelarsi significativa nell’arco di massimo 12 mesi - tali da spingere la Fed a pensare che la politica monetaria stia funzionando - il mercato si muoverà anticipando anche un rialzo dei tassi più sostanzioso. In quel caso tra gli asset più penalizzati, ovviamente, ci sarà tutto ciò che è (promessa di) cash flow nel lungo periodo.

La domanda che dobbiamo porci è: un rialzo dei tassi è sostenibile? Torniamo con la memoria a fine 2015, quando partì il precedente tentativo di rialzo. Dopo nove rialzi, Powell intuì come un Fed fund rate del 2,50% fosse insostenibile per l’economia USA, la quale si “ruppe” durante l’estate del 2019 quando la Fed tagliò i tassi tre volte… per poi in pochi giorni portarli a zero dall’1,75% a scoppio pandemia.

Esiste un tasso di crescita di equilibrio per gli USA e dove si posiziona rispetto al pensiero ricorrente degli economisti? La narrativa del tasso di equilibrio può essere estremamente semplificata: se il tasso di crescita nominale è il 3% e il rapporto tra debito e PIL è il 300%, il tasso di interesse nominale implicito di equilibrio gravita in zona 1%. Questo perché, col tasso a 1%, servirebbe il 100% della crescita del PIL per il pagamento degli interessi sul debito.

Nel caso di un deciso e severo rialzo dei tassi, la crescita reale rallenterebbe in tutta risposta perché la produttività in piena occupazione resterebbe debole e le aziende non potrebbero pagare salari più elevati a causa del proprio vincolo di profitto. Aggiungiamo che la crescita nominale rallenterebbe anche di più di quella reale perché ci sarebbe la riduzione dell’inflazione.

Da questo dobbiamo dedurre che persino un ritmo molto blando di rialzo dei tassi potrebbe portare il Fed fund rate reale molto al di sopra del tasso reale di equilibrio di breve termine, provocando ulteriore contrazione della domanda. In quello scenario ipotetico si entrerebbe in recessione e la Fed dovrebbe interrompere la politica di rialzo dei tassi. Questo provocherebbe un danno strutturale che metterebbe ulteriore pressione ribassista sul tasso di interesse di equilibrio. Un indicatore che possiamo osservare per interpretare l’attitudine dei mercati nei confronti di questo scenario è l’inclinazione della curva dei rendimenti USA, in particolare il campanello di allarme potrebbe essere un appiattimento.

Se la politica monetaria della Fed non fosse convincente, lo spread 30Y vs 5Y della curva dei Treasury Note potrebbe ridursi significativamente e dovremmo interpretare il messaggio lanciato dai mercati in questo modo: «Siamo molto più pessimisti di voi sulle prospettive del tasso implicito di equilibrio!». Da tutto ciò arriviamo alla conclusione che un significativo e brutale rialzo dei tassi di interesse è uno scenario poco probabile.

Banca Centrale Europea

In Eurozona agosto ha portato l’inflazione al 3%, massimo da novembre 2011, dal 2,2% di luglio. Tra le cause possiamo annoverare: rialzo dei prezzi dell’energia,    effetto confronto con l’anno precedente, effetti minori come la ritardata stagione dei saldi in Italia e Francia del 2020 ed altri di minore rilevanza.

Molte di queste componenti sono considerate transitorie. A non essere transitoria è la persistenza di colli di bottiglia nelle filiere di produzione, in particolare:

  • carenza di semiconduttori;

  • mismatch tra aperture di posizioni di ricerca da parte delle imprese e l’effettiva offerta dei lavoratori. Avremo quindi crescente ed elevata divaricazione tra il livello degli ordini e quello della produzione, con ritardi da parte dei fornitori e pressioni sui prezzi alla produzione.

Ipotizzando degli scenari di risposta per l’immediato futuro, potremmo aspettarci pressioni politiche sulla BCE legate alle differenti condizioni finanziarie tra Paesi centrali e periferici: per chi ha un’economia più dinamica e bilanci pubblici più flessibili, una crescente irritazione per l’aumento dei prezzi non potrebbe che portare a pressioni sulla BCE per l’implementazione di una politica monetaria via via maggiormente restrittiva.

Ipotizzando scenari sequenziali per i prossimi 12 mesi, una possibilità concreta è rappresentata da:

  1. rimodulazione degli acquisti da parte della BCE;

  2. alcune pressioni politiche per una politica monetaria meno espansiva. Queste pressioni non saranno tuttavia pienamente accolte;

  3. in caso di parziale accoglimento, alle inevitabili conseguenze sul costo del debito dei Paesi periferici la BCE risponderà con un nuovo piano di acquisto di asset mirato a rassicurare i mercati sulla presenza di una banca centrale “forte” a supporto del debito pubblico periferico.

Considerazioni macroeconomiche che influenzano la politica delle Banche Centrali

A livello globale e per i Paesi sviluppati, la politica monetaria fortemente espansiva da alcuni anni si sta muovendo verso ruoli fiscali e sociali per il riassorbimento della disoccupazione (anche in forma indiretta, es. finanziando debito pubblico usato per sussidi). Il problema più evidente è che gli shock di offerta non sono contrastabili se non al prezzo di creare inflazione. In questo contesto non si può avere stabilità dei prezzi e al tempo stesso finanziamento del deficit pubblico, difficilmente i due obiettivi possono convivere. Questo trade-off non può che portare a tentativi di equilibrismo tra l’acquisto diretto di titoli di debito pubblico ma senza un rialzo dei tassi e l’opposto, non a entrambe le soluzioni. La politica dei tassi di interesse a zero (ZIRP) non può contrastare la mancanza di componenti, materie prime, semilavorati e lavoratori.

Supponiamo che, dopo l’interruzione delle politiche di acquisto di titoli di debito, si accenni a un graduale rialzo dei tassi: nell’immediato futuro osserveremmo una rivalutazione negativa di (quasi) tutti gli asset rischiosi a duration media e alta perché cambierebbe la curva di sconto. Se vi fosse una successiva marcia indietro da parte delle Banche Centrali, ci troveremmo nuovamente in uno scenario di shock di offerta con ZIRP (Zero Interest Rate Policy); in tale contesto, successivi e inevitabili stimoli monetari si scaricherebbero su:

  • rialzo dei prezzi degli immobili ma senza accrescimento della ricchezza delle famiglie, perché non sarebbero le famiglie a sostenere la domanda con i loro acquisti;

  • ricorso al debito pubblico e privato;

  • rialzo dei corsi azionari mediante la leva del buyback finanziato con debito.

Infine, riteniamo che la mancanza di figure professionali nei prossimi mesi diventerà un tema caldo e le conseguenze più rilevanti in ordine cronologico saranno:

  1. aumento dei costi di produzione, diretti e indiretti;

  2. traslazione dei costi in misura variabile sui consumatori;

  3. distruzione della domanda;

  4. tagli di occupazione per volontà delle imprese di tutelare il proprio equilibrio economico.

In questo momento dette considerazioni sono già in parte o in tutto nelle posizioni degli operatori di mercato, e quindi in larga parte già scontate nei prezzi attuali. Per quanto riguarda possibili framework operativi, modelli di “nowcasting” possono aiutare a marcare a giro più stretto l’evoluzione di PIL e CPI. Introducendo anche i tassi di interesse nel framework, eventuali disallineamenti anomali sarebbero un campanello d’allarme da non sottovalutare.

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