11 Nov 2021
Umberto Sagliaschi, Responsabile Equity
L’aumento del tasso di inflazione merita sicuramente molta attenzione. Non tanto per il fenomeno economico in sé, ma per la forte polarizzazione di opinioni a riguardo. Una polarizzazione così forte, e in parte ideologica, da creare fratture evidenti all’interno delle autorità monetarie e policy makers in generale. Problema non da poco, e che porta inconsapevolmente ad ignorare nella pratica quello che è il vero nocciolo della questione. L’errore più grosso in questa fase è pensare che le banche centrali ritornino alle ricette passate di politica monetaria figlie del mantra “rules rather than discretion”. Se c’è una cosa che la storia insegna è che, una volta abbandonata una regola, o meglio, un commitment, è molto improbabile tornare indietro. E il motivo è sempre politico.
Per capire meglio a quali regole e ricette del passato alludiamo è necessario fare una premessa sulla natura, per così dire, dell'inflazione. Non bisogna essere degli economisti per capire che un cambiamento nel livello generale dei prezzi sia guidato da due macro componenti, una legato alla situazione economica contingente (attività economica in espansione o in contrazione) e un’altra invece legata alle aspettative di inflazione per il prossimo futuro. Intuitivamente, un’impresa che si aspetta un aumento del livello dei prezzi per domani aumenterà già in parte i prezzi oggi, in modo tale da tutelarsi su eventuali difficoltà nel modificarli tempestivamente. Per questo motivo, dalla fine degli anni ‘80 alla crisi del 2008, le banche centrali hanno utilizzato i tassi di interesse per mantenere l’inflazione attorno ad un target in modo da minimizzare le esternalità derivanti dal ciclo economico e dalla difficoltà di prevedere il rincaro dei prezzi. E lo hanno fatto in un modo molto preciso, seguendo regole al limite del “meccanico” per evitare che qualsiasi forma di discrezionalità sfociasse in un inflation bias ex-ante: “rules rather than discretion” per l’appunto. Poi è arrivata la crisi finanziaria, ed è cambiato tutto. L’inflazione è diventata un problema di secondo o terzo ordine, mentre era fondamentale mantenere la stabilità del sistema finanziario. Specie di fronte all’evidenza che massicce iniezioni di liquidità non si traducevano in aumento dei prezzi al consumo, diversamente da quanto previsto dai modelli neokeynesiani. Sulla scorta di questa esperienza ormai decennale (e quella giapponese ventennale), le misure monetarie messe in atto dalle banche centrali per rispondere all’incertezza dovuta alla pandemia sono state ancora più straordinarie. E così siamo arrivati ad oggi. Cosa attendersi per il futuro?
Se da un lato è evidente che la base monetaria non possa continuare a crescere al ritmo attuale, specie in un contesto di “forte” ripresa economica, è forse meno facile da cogliere quanto sia altrettanto improbabile che nei paesi sviluppati aumentino in modo significativo i tassi di interesse, a prescindere dalla persistenza tasso di inflazione. Come detto, con il 2008 (e tutto ciò che ne è conseguito), il ruolo delle banche centrali è divenuto in primis quello di garantire la stabilità del sistema finanziario. E a tal riguardo, oggi uno dei principali rischi sistemici è senza dubbio la sostenibilità del debito pubblico. Supponiamo che l’inflazione sia davvero un fenomeno persistente, e cioè tale da rimanere con certezza sui livelli più recenti. In un mondo come quello pre-Lehman, sarebbe lecito aspettarsi tassi di interesse prossimi al 4-5% per mantenere un obiettivo di inflazione del 2%. Bene, con queste premesse la sostenibilità del debito pubblico verrebbe messa seriamente in discussione, causando molto probabilmente un aumento degli spread per le economie più indebitate e di conseguenza un effetto a spirale sulla relativa sostenibilità delle finanze pubbliche. Senza contare l’effetto negativo di tassi reali più elevati su investimenti e crescita. Al contrario, un tasso di inflazione tra il 3 e il 5% permetterebbe di aumentare in modo significativo la sostenibilità del debito pubblico, anche con tassi di interesse al margine più elevati e in linea con quelli precedenti alla pandemia, con effetti limitati sull’economia reale secondo recenti studi accademici (e.g. Ball, 2013)1.
In un contesto di forte ricorso alla spesa pubblica e necessità di fare ingenti investimenti per la transizione energetica, da un punto di vista politico è sicuramente più accettabile un tasso di inflazione più elevato mentre di sicuro non lo sono tassi reali più elevati, ovvero la combinazione di tassi nominali più elevati per raggiungere un tasso di inflazione più basso. Infatti, va tenuto conto che:
in molte economie il tasso di inflazione è stato nettamente al di sotto di quello target (il famoso 2%) per molto tempo;
i target di inflazione sono stati determinati circa 30 anni fa sulla base delle caratteristiche dell’economia ai tempi, e nel frattempo la composizione del PIL delle principali economie avanzate, oltre che la distribuzione dei redditi, è cambiata enormemente;
in regioni come l’Europa, caratterizzate da forte rigidità dei salari, un aumento dell’inflazione potrebbe essere un catalyst importante per rinegoziare i contratti e implementare una politica redistributiva tra imprese (shareholders) e lavoratori Pareto efficiente, con potenziali effetti positivi sulla crescita e quindi in larga parte neutra per i profitti aziendali a livello aggregato.
Combinando questi tre elementi con l’aumento del rischio sistemico legato alla sostenibilità del debito pubblico, e alla minor indipendenza de facto delle banche centrali nell’era post-Lehman, possiamo trarre la conclusione che un aumento sostanziale dei tassi di interesse è quantomeno improbabile di questi tempi. Al contempo, è altrettanto impensabile una riduzione significativa dei tassi di interesse dati i rischi connessi al fenomeno dell’inflazione. In altre parole, stiamo tornando lentamente verso la situazione pre-pandemica e, se diversamente da quanto avveniva nel 2019, l’inflazione tornerà a galoppare anche una volta superati i supply-chain bottlenecks correnti, bisognerà aver se mai presente il quadro di quali imprese verranno penalizzate e quali no da un punto di vista reale, e quindi fondamentale. Tutto il resto è rumore, fastidioso a tratti, ma rumore.
1https://voxeu.org/article/case-4-inflation. Ball, Laurence (2013), “The Case for 4% Inflation”, Central Bank Review (Central Bank of the Republic of Turkey), May.
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