02 Dic 2021
È dai tempi della Crisi Finanziaria del 2008 che i mercati finanziari hanno visto un flusso quasi ininterrotto di lifeline support dalle Banche Centrali, in particolare da parte della FED e della BCE.
Ciò ha causato un’inflazione finanziaria, in un periodo storico in cui l’inflazione come fenomeno monetario è stato invece “la grande assente”. Azioni, obbligazioni ma anche il real estate hanno beneficiato in maniera comune dell’abbondanza di liquidità, che nel caso del settore immobiliare ha favorito anche il re-leveraging degli households.
Vero è che le crisi finanziarie - o comunque gli shock con repentini incrementi di volatilità - si susseguono ormai con un ritmo sempre più ravvicinato e la medicina delle Banche Centrali somministrata in dosi gargantuesche è oramai da tempo sempre la stessa: stampare, stampare, stampare.
Lo stock di debito pubblico accumulatosi a seguito della pandemia da Covid-19 ha creato una dipendenza difficilmente guaribile, quella ai bassi tassi di interesse. Il Giappone è un esempio non virtuoso di come l’accumulazione di un enorme stock di debito pubblico, in assenza di una “monetizzazione” di quest'ultimo, possa essere sostenuta solo da una politica monetaria accomodante ad infinitum.
Cosa potrebbe forzare la mano ai Banchieri Centrali e spingerli a ripristinare un regime di tassi d’interesse e soprattutto di tassi reali positivi? La risposta è semplicemente la risalita dell’inflazione, una risalita però che deve essere strutturale e non ciclica.
Le due variabili più importanti che potrebbero determinare un’inversione delle politiche monetarie sono il livello dei salari e il costo dell’energia. E solo il tempo ci dirà se stiamo andando verso un riequilibrio al rialzo di questi due mercati.
Lo scenario più probabile a nostro avviso è di una decade 2020 caratterizzata da un livello di tassi molto simile a quello attuale, un new normal dove forse in Europa, tra qualche anno, torneremo a vedere i tassi a breve con un floor a zero e un Bund all’1% e negli Stati Uniti il decennale attorno al 3%.
In uno scenario che dovesse vedere rialzi molto più significativi dei tassi, è ragionevole pensare che assisteremmo ad un pronunciato aumento dei default e a mercati caratterizzati da un deciso cambio del regime di volatilità.
Un capitolo a sé lo merita il mercato immobiliare, che è stato ovviamente sostenuto vigorosamente dall’attuale regime dei tassi, tanto che in Europa nelle principali capitali i prezzi sono saliti vigorosamente nell’ultimo decennio, indebitarsi non è mai stato così a buon mercato e in molti ne hanno approfittato non solo per comprare una prima casa più grande ma anche per le seconde case o per il cosiddetto “buy to let” ovvero l’acquisto finalizzato all’affitto. Con i mercati del fixed income caratterizzati da rendimenti negativi quasi ovunque al di fuori del mercato high yield, questo investimento con rendimenti nell’ordine del 3/5% sicuramente non poteva passare inosservato.
Gli Stati Uniti stanno ora vivendo una stagione di fortissimi rialzi dell’immobiliare nelle grandi città e non è un caso che ciò avvenga nell’anno successivo al taglio dei tassi a zero della FED per contrastare gli effetti della pandemia. Lo stesso fenomeno si osserva in molte parti del mondo dalla Nuova Zelanda, all’Australia, per arrivare alla Corea ed alla Cina.
Il tema della “Great Exit” quindi è ancor più delicato perché questa volta non ci troviamo di fronte, come nel passato, ad una bolla ma ad una molteplicità di bolle che se dovessero essere fatte scoppiare in contemporanea determinerebbero un’instabilità a livello globale non solo finanziaria, ma anche sociale senza precedenti.
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