Innumerevoli analisi e studi, accademici e non, hanno cercato di individuare quali “fattori” potessero spiegare le dinamiche e le performance passate nei mercati azionari e che, più banalmente, potessero offrire qualche indicazione per migliorare il profilo di rischio-rendimento nella costruzione dei portafogli, così come nella selezione dei titoli. L’esempio più noto è forse il Value Premium.
14 Mar 2023
Giacomo Saibene, Ph.D., Portfolio Manager Team Equity
Nella sua forma più semplice consiste nel comprare titoli poco costosi, con un basso rapporto Price-to-Book, ed eventualmente vendere i titoli più costosi, nel caso di strategie long-short. In altre parole, si punta sui titoli con un valore di mercato il più possibile vicino o inferiore rispetto al valore di bilancio dei loro asset. Questa idea richiama in realtà la Q di Tobin, almeno agli occhi di un macroeconomista, introdotta negli anni ‘70 da James Tobin per spiegare invece la dinamica degli investimenti da parte delle imprese.
Questo tipo di ricerche si è focalizzato generalmente su due aspetti: quali fattori “resistono nel tempo” e se sia possibile darne una “spiegazione razionale”. Il primo riguarda la capacità di un qualsiasi fattore di rimanere significativo al variare del campione, delle geografie e dei periodi temporali, e all’inclusione di altri fattori “concorrenti”. In questo il Value Premium si è dimostrato relativamente robusto e pervasivo, seppur nell’ultimo decennio la sua rilevanza sia stata un po’ ridimensionata, di pari passo alla sua sotto-performance. Il secondo punto riguarda invece la sfida intellettuale di avere una spiegazione razionale del perché esista un tale premio: ad esempio, sono i titoli Value più remunerativi perché più rischiosi, in settori più ciclici e capital-intensive? Oppure sono associati ad aspettative più pessimistiche, che tendono in realtà a realizzarsi meglio di quanto si creda? E così via.
L’obiettivo di questo breve articolo è duplice:
Descrivere la performance del Value Premium negli ultimi 25 anni ed inquadrarla rispetto a quella di alcuni degli altri fattori più noti, con un focus sul 2022; e
Provare a stimare quale sarà il Value Premium nel futuro. Sembra infatti che il Value Premium sia attribuibile principalmente alla parte di Price-to-Book residuale, ovvero quella “non spiegabile” da variabili fondamentali, e questo ci da l’opportunità di misurare questa differenza in aggregato e studiarne l’evoluzione nel tempo.
Partiamo dalla Figura 1, dove riportiamo l’andamento di diversi portafogli fattoriali europei dal 1997 al 2022. La performance peggiore è data dall’indice di mercato Market Weighted (MW), nel quale i pesi dei titoli sono proporzionali alla loro capitalizzazione. Le altre strategie fattoriali hanno fatto meglio, almeno su questo arco temporale, così come l’indice Equal Weights (EW), che è semplicemente l’indice di mercato ma con titoli equi pesati: in questo periodo vi è quindi stato un premio attribuibile alle Small Caps. Le altre linee rappresentano portafogli Value e Growth: si può subito vedere come il periodo d’oro del Value sia stato la bolla dot-com. Le differenze tra le linee continue e tratteggiate stano nella definizione: la linea continua (Value) rappresenta l’interpretazione più moderna, che classifica come titoli Value il top 20% della cross-section per Book-to-Price, Earning Yield e Dividend Yield; la linea tratteggiata (Value BP) rappresenta invece l’interpretazione più classica, che classifica i titoli Value come il top 20% per Book-to-Price soltanto. Growth segue la medesima distinzione: la linea continua rappresenta le società con un maggior tasso di crescita passato (a 1 e a 5 anni) per fatturato ed EPS, mentre la linea tratteggiata rappresenta il bottom 20% per Book-to-Price soltanto (ie. l’opposto di Value BP). In Tabella 1 riportiamo le performance di questi ed altri portafogli fattoriali (Quality e Momentum), suddivise per sottoperiodi di 5 anni.
Figura 1. Performance (log TR) per diversi fattori; Western Europe; 1997-2022.
Note: rendimenti TR in EUR; universo limitato ai maggiori 800 titoli per capitalizzazione, con l’esclusione delle società finanziarie; MW = portafoglio di mercato market weighted; EW = portafoglio di mercato equal weighted; Value = top 20% (B/P, E/P, Div/P); Value BP = top 20% (Book-to-Price); Growth = top 20% (sales growth 1Y & 5Y, EPS growth 1Y & 5Y); Growth BP = bottom 20% (Book-to-Price); ribilanciamento ogni 3M.
Fonte: elaborazioni Quaestio, dati settimanali dal 3/1/1997 al 30/12/2022.
Tabella 1. Rendimenti Total Return per sottoperiodi e per diversi portafogli fattoriali.
Note: l’universo americano è limitato ad un massimo di 1500 società non finanziarie per capitalizzazione; Quality è definito come il miglior 20% delle società quotate per metriche di profittabilità; Momentum come il miglior 20% per performance di prezzo negli ultimi 12 mesi, al netto dell’ultimo mese.
Fonte: elaborazioni Quaestio, dati settimanali dal 3/1/1997 al 30/12/2022.
Prima di tutto, vediamo che l'interpretazione “classica” di Value, basata soltanto su Price-to-Book, ha fatto relativamente peggio della sua versione moderna, soprattutto dal 2010 in poi: questo è in linea con recenti ricerche1 che mostrano come sia sempre più importante il valore degli intangibles, che spesso non vengono del tutto conteggiati a bilancio, e che invece la definizione più moderna di Value riesce indirettamente a catturare meglio, utilizzando anche Earning Yield e Dividend Yield.
In secondo luogo, non c’è una strategia sempre vincente: Value ha fatto molto bene nel 2002-2006, così come nel 2022, mentre Growth ha avuto rendimenti superiori nel 2017-2021, ad esempio. Da questo punto di vista, strategie di tipo Quality offrono generalmente rendimenti meno estremi e meno dipendenti dal ciclo di mercato in cui ci si trova, ovviamente con tutti i caveat del caso: ad esempio, soprattutto in Europa, Quality è oggi relativamente vicino a Growth, in termini di elevata intersezione tra società profittevoli, non troppo grandi, e società a elevata crescita: non è quindi un caso la brutta performance di Quality nel 2022.
Veniamo adesso al 2022. Sia in Europa sia negli Stati Uniti, le strategie Value hanno sovraperformato le altre strategie (Growth, Small Caps, Quality e Momentum), da circa un +10% fino a un +30%. C’è stata insomma una fuga dalle società più costose, caratterizzate da avere un rapporto Price-to-Book elevato e quindi asset-light. Come mai? Possiamo partire dalla Tabella 2, che riporta la composizione settoriale a fine 2021 di alcuni di questi portafogli fattoriali.
Tabella 2. Composizione settoriale a fine 2021; strategie Value e Growth; Western Europe.
Fonte: elaborazioni Quaestio, dati al 31/12/2021.
Si nota subito che le differenze tra i diversi portafogli sono molto accentuate: Oil & Gas conta per circa il 10% nelle strategie Value, mentre è quasi assente nelle strategie Growth, così come c’è un forte overweight di Basic Materials, Telco e Utilities. Viceversa, la strategia Growth è molto carica di Technology, Health Care e Industrials. Con il senno di oggi, gli shock inflazionistici e geopolitici del 2022 hanno fortemente avvantaggiato i settori dove Value è preponderante. Ma se guardiamo al futuro, tali settori rimangono spesso molto competitivi e a bassa crescita, oppure molto regolamentati ed esposti politicamente, o eccessivamente dipendenti dai prezzi (di mercato) dei beni venduti: a nostro parere il valore economico di una società, nel lungo periodo, sta in altri settori, dove i profitti delle società dipendono più dalle capacità manageriali, innovative e tecnologiche delle stesse. Quindi il 2022 potrebbe essere più un evento contingente ed eccezionale che un cambio di paradigma: le revisioni al rialzo delle prospettive economiche delle società Value sono state straordinariamente elevate nel corso dell’anno, mentre al contrario le prospettive delle società Growth sono state in parte deluse. Allo stesso modo, la situazione potrebbe invertirsi in uno scenario di rallentamento economico: c‘è ora un eccesso di ottimismo per i titoli Value?
Passiamo quindi al secondo punto: provare a fare una stima del Value Premium futuro. Recenti ricerche2 argomentano come il Value Premium sia collegato principalmente alla quota del rapporto Price-to-Book che non è spiegabile da variabili fondamentali. Proviamo ad approfondire. In pratica, possiamo scomporre il rapporto P/B in:
dove P/B fitted è la parte “spiegabile”, cioè stimabile econometricamente a partire da un insieme di variabili esplicative, che in questo esempio abbiamo definito3 come: la capitalizzazione di mercato, il margine operativo e la sua volatilità, il rapporto debito netto / EbITDA, la crescita del fatturato a 5Y, il rapporto tra free cash flow e asset, il beta di mercato, e il momentum di prezzo a 1M e 12M. Adesso immaginiamo di creare portafogli fattoriali, investendo soltanto nel top 20%. Il risultato? Il Value Premium si manifesta quasi esclusivamente se formiamo i portafogli guardando al valore residuale, non spiegabile, del rapporto Price-to-Book. In altre parole, se usiamo una stima econometrica del rapporto P/B per costruire portafogli fattoriali, non otterremo alcun Value Premium, mentre se selezioniamo le società in base alla differenza tra P/B e P/B stimato, ecco allora che il Value Premium riappare.
Da un lato, a livello teorico, questi risultati sono una sfida intellettuale per buona parte delle razionalizzazioni del Value Premium. Ad esempio per tutte quelle teorie che lo associano a caratteristiche definibili a livello di fondamentali, come ad esempio la maggior rischiosità operativa o l’esposizione a specifici shock tecnologici: non sembra infatti che tali misure fondamentali siano così importanti per il Value Premium. Dall’altro, a livello pratico, possiamo concentrarci sulla parte residuale e provare a utilizzarla come stimatore del Value Premium: se infatti il residuo (P/B_residual) è negativo, vuol dire che il rapporto Price-to-Book è più basso di quanto stimato, ergo la società è più cheap rispetto a quanto stimabile dai suoi fondamentali. Questo dovrebbe correlarsi a rendimenti più elevati in futuro, almeno a livello teorico. Possiamo quindi osservare l’andamento di questo residuo nel tempo, per inferire implicitamente quanto sia elevato o meno il Value Premium ex ante: se il residuo medio aggregato è negativo, allora ci possiamo aspettare rendimenti attesi più elevati – e viceversa. Figura 2 presenta proprio l’andamento di questo Value Residual aggregato nel tempo, per le aree Europa e Nord America: siamo oggi intorno ai massimi degli ultimi 25 anni, con valori decisamente positivi, mentre storicamente il prezzo di mercato è quasi sempre stato minore rispetto al suo valore stimato.
Può questo essere un segnale di una prossima inversione di tendenza, per il 2023 e oltre? Impossibile dare una risposta certa, come sempre. Sia per le incertezze nelle stime e nel modello, sia per la difficoltà intrinseca nel predire variazioni di prezzo nel breve periodo. Ma questo approccio scientifico e strutturato nel porsi le domande fa parte del DNA di Quaestio: ne conosciamo e apprezziamo i suoi limiti, così come i suoi vantaggi. Ci portiamo quindi a casa un’indicazione interessante da questa analisi: oggi le società Value sono forse meno cheap di quanto si creda.
Figura 2. Value Residual: differenza tra P/B e P/B stimato; media mobile su quattro trimestri; un valore negativo è interpretabile come un indicatore di “cheapness”.
Note: valore medio aggregato, pesato per la capitalizzazione di mercato di ciascun titolo, ad esclusione dei percentili estremi (P05 e P95); il Value Residual è definito come: P/B-P/B_fitted, dove P/B_fitted è la stima del rapporto P/B ottenuta tramite OLS utilizzando il seguente set di variabili indipendenti: capitalizzazione di mercato, margine operativo, free cash flow to asset, crescita del fatturato su 5Y, debito netto su EbITDA, volatilità del margine operativo, beta di mercato, e momentum di prezzo a 1M e a 12M.
Fonte: elaborazioni Quaestio, dati settimanali dal 31/12/1998 al 30/12/2022.
1 Si veda ad esempio Crouzet, N., Eberly, J. C., Eisfeldt, A. L., & Papanikolaou, D. (2022). A Model of Intangible Capital (No. w30376). National Bureau of Economic Research.
2 Si veda Golubov, A., & Konstantinidi, T. (2019). Where Is the Risk in Value? Evidence from a Market-to-Book Decomposition. The Journal of Finance, 74(6), 3135-3186.
3 Si noti che non vi è ancora un consensus accademico sulle variabili da utilizzare: la domanda di ricerca è centrale (i.e. spiegare i prezzi di mercato) ma gli ostacoli sia teorici sia pratici sono ancora molti, rendendo questo tipo di esercizio particolarmente sfidante, ma al tempo stesso stimolante. L’impressione generale è che non vi siano comunque grandi differenze nel risultato derivanti dalla scelta delle variabili nella cross-section e che quindi il risultato sia tendenzialmente robusto.
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